“LA CREMAZIONE”
a cura di Giuliano Catoni

Cinque secoli fa l’umanista Pietro Paolo Vergerio in un suo trattato sull’educazione dava la parola a due personaggi: Senso e Ragione che discutevano se era bene o male pensare alla morte. Senso affermava che se il parlare fosse valso a evitarla, si poteva anche discuterne; poiché però non la si poteva evitare, era meglio non parlarne. Al contrario Ragione sosteneva che essendo impossibile sconfiggerla o differirla, era meglio parlarne liberamente per temerla il meno possibile, quando ne fosse venuto il momento.

A distanza di secoli viviamo lo stesso dilemma: molti vedono il problema come Senso, ma altri – come noi – lo vedono come Ragione e, appunto, ne parlano.

Nell’estate del 1822, in una spiaggia toscana di fronte al Mar Tirreno, il corpo del grande poeta inglese Shelley fu cremato davanti ai suoi amici, tra cui lord Byron. Shelley era morto annegato nella baia di Lerici; aveva da poco compiuto 30 anni.

Il governo del granducato di Toscana aveva dato l’autorizzazione per la cerimonia che ebbe una certa risonanza data la fama dei personaggi coinvolti; e d’altra parte il granducato di Toscana si era precocemente occupato di igiene cimiteriale: già nel 1783 aveva fatto cessare l’antico e malsano uso di inumare le salme all’interno delle chiese o nei conventi o nei cimiteri parrocchiali dentro i centri abitati.

A Siena addirittura dal 1765 le salme di coloro che erano deceduti nell’Ospedale Santa Maria della Scala venivano seppelliti in un campo all’inizio dell’attuale strada del Giuggiolo, dove è ancora la cappella di Santa Cristina, che fungeva da stanza mortuaria per quel piccolo cimitero.

A seguito della legge del 1783, a Siena furono incaricati due professori di medicina per individuare il luogo idoneo per essere adibito a camposanto. Dopo varie proposte, fu scelto un podere fuori Porta Laterina, sul Poggio del Rosaio o Poggio del Cardinale. Il progetto fu affidato all’architetto Bernardino Fantastici e nel 1786 il cimitero fu inaugurato. Era il primo fuori delle Mura: quello della Misericordia, infatti, fu costruito fuori Porta Tufi solo nel 1834.

Furono assunti due “fossaioli”, cui fu concesso di abitare in una casetta, vicino a Porta Laterina che era stata riaperta, dopo la chiusura per l’assedio del 1555.

Gli abitanti della zona circostante cominciarono però a lamentarsi per i miasmi che provenivano dalle sepolture, forse poco accurate e che investivano secondo il volgere del vento, le abitazioni di San Marco e Pian dei Mantellini. Si cercò di rimediare con alberi e mura che circoscrivessero l’area cimiteriale.

La questione dei cimiteri venne affrontata in maniera organica da Napoleone, col suo editto di Saint-Cloud del 12 giugno 1804: dovevano essere chiusi da muri di almeno due metri e collocati a non meno di 35 metri dal centro abitato. Ogni culto poi doveva avere un cimitero distinto.

Dopo le due devastanti epidemie di colera del 1835 e del 1854, cimiteri e tombe tornarono a essere oggetto di osservazione da parte di medici e scienziati. In particolare Ferdinando Coletti dell’Università di Padova, considerando il pericolo dei complessi sepolcrari vicino alla città e al possibile inquinamento delle falde acquifere, si fece sostenitore dell’incenerazione dei cadaveri. In una sua memoria del 1857 scrisse: “In cambio di un focolare di infezione, di un letto di vermi, di una lurida fogna di esalazioni pestilenziali, l’incenerazione dà un pugno di polvere innocua, inalterabile e inodora”.

Per quanto riguarda le indagini giudiziarie di natura medico-legale sui cadaveri, Coletti afferma che la cremazione poteva essere preceduta da un esame, volto ad escludere l’occultamento di un atto delittuoso.

Il dibattito sulla cremazione prese ancora maggior vigore negli anni successivi all’Unità d’Italia. Il clima culturale era cambiato: dominava la filosofia positivista, col connesso rispetto della scienza sperimentale. Ma il culto della memoria, anche con la cremazione era salvaguardato attraverso le urne cinerarie, che costituivano le pietre tombali delle inumazioni.

Nel 1867 per la prima volta, la questione della cremazione e dei cimiteri approdò in Parlamento. Il deputato Salvatore Morelli, un libero pensatore, presentò un progetto di legge per l’abolizione dei camposanti, delle necropoli, sostituiti da una serie di templi crematori. Nulla fu deciso, però, fino al 1874 quando un regolamento esecutivo della legge sulla sanità pubblica, consentì, per motivi eccezionali, che il prefetto permettesse la cremazione. I sostenitori di tale pratica, naturalmente, non furono d’accordo con tale decisione e nel febbraio del 1876 decisero di istituzionalizzare il movimento cremazionista. Sorse infatti a Milano la prima Società per la Cremazone, che in breve raccolse più di settecento adesioni. Un illustre clinico romano, il senatore Carlo Maggiorani, riportò in aula la questione di un codice sanitario, che permettesse ai vivi di essere tutelati dai danni possibili per la lenta decomposizione dei morti. Igienista convinto, Maggiorani disse che “il cadavere sepolto è una sorgente di effluvi infesti nell’aria e di infiltrazioni pericolose per le acque potabili”. La cremazione, inoltre, non andava contro i precetti della religione, perché ne rispettava il principio del “momento homo quia pulivs est et in polvere reverteris”.

Un altro medico, Antonio Moretti, pubblicò negli “Annali di Chimica” del 1872 alcuni versi a favore della cremazione che dicevano: “Perché sdegnoso inorridito e tristo / fuggi, amico, da lugubre recinto / ove cremare vedesti umana salma? / Il benefico rogo estimi forse / atto inumano, barbaro e feroce? / Disse la scienza: inceneriamo i corpi / che un dì la terra alla primiera polve / ridur solea co’ i suoi processi oscuri / e della scienza non son son sacri i detti?.

Intorno agli stessi anni due cremazioni illustri interessarono la pubblica opinione e furono commentate dai giornali: la prima quella dell’indiano di Kalepur, morto ventenne a Firenze nel 1870 e arso, secondo il rito braminico indiano alla confluenza dell’Arno con il Mugnone: la seconda, quattro ann dopo quando il ricco industriale della seta, Alberto Keller, morto a Milano e molto noto per le sue attività filantropiche, aveva manifestato il desiderio che le sue spoglie mortali fossero cremate. Il Municipio e il Ministro dell’Interno non dettero però l’autorizzazione. Così il corpo di Keller fu imbalsamato e solo un anno dopo si giunse alla cremazione in un tempio crematorio, fatto costruire dalla stessa famiglia Keller su un area del cimitero monumentale di Milano, concessa dal Comune.

Sorgevano intanto altre associazioni cremazioniste dell’Italia del Nord e del Centro, specie dopo le polemiche seguite alla mancata cremazione della salma di Garibaldi. Il generale era morto il 2 giugno del 1882, e aveva ripetutamente espresso, anche per iscritto, il desiderio di essere cremato. Addirittura aveva specificato, in una appendice al testamento, di volere “molta legna per il rogo”, legna aromatica come acacia, lentisco e mirto. E ancora aveva scritto “Credo di avere il diritto di poter disporre del mio corpo, avendo propugnato tutta la vita il diritto dell’uomo”. Ma per ragioni di opportunità politica, il governo fece imbalsamare il corpo, nonostante la vedova e il figlio Menotti insistessero per la cremazione.

Carducci scrisse a tal proposito: “gli gnomi hanno schiaffeggiato la volontà dell’eroe”.

Qualche mese dopo la morte di Garibaldi, nel settembre del 1882, si tenne a Modena il congresso della Lega italiana delle società di cremazione. Le società erano 24 con circa seimila soci, tutte nell’Italia centrosettentrionale. In Toscana c’erano Firenze, Livorno e Pisa e nel febbraio 1883 fu creata anche la società senese, con la presidenza del professor Silvio Cecchi e la segreteria del notaio Santi Felli. La società aveva dei precedenti nell’altra Associazione dei Liberi Pensatori, nata nel 1864 e che aveva avuto come presidente onorario proprio Garibaldi. Aveva pubblicato anche un giornale “Il libero pensiero”, che dall’agosto 1864 – subito sequestrato con l’accusa di attacco alla religione dello Stato e dell’ordine monarchico-costituzionale – uscì per altri otto numeri, tutti tesi allo scontro ideologico tra spiritualismo idealistico e materialismo evoluzionista.

E proprio contro questa filosofia in generale e in particolare contro la cremazione, si scagliò la rivista dei gesuiti “Civiltà Cattolica”. La crescente ostilità delle gerarchie cattoliche sfociò nel decreto del Sant’Uffizio del 19 maggio 1896 col quale si stabilì la scomunica per chi aveva adottato le pratiche cremazioniste.

Giunse però due anni dopo il nuovo codice sanitario approvato con la legge del luglio 1888. La legge voluta da Crispi, con i suoi regolamenti di esecuzione, stabiliva senza eccezioni per ogni cittadino la possibilità di scegliere la cremazione, ingiungendo ai Comuni di concedere l’area necessaria nei cimiteri per la costruzione dei crematori. L’art. 59 continuava, dicendo: “le urne cinerarie contenenti i residui della completa cremazione possono essere collocate nei cimiteri o in cappelle, o nei templi appartenenti ad enti morali riconosciuti dallo Stato, o in colombari privati aventi destinazione stabile e in modo di essere assicurate da ogni profanazione”.

Dopo l’entrata in vigore della nuova legge sanitaria crispina, si deve constatare che la salute degli italiani migliorò sensibilmente; aumentò la popolazione, diminuì la mortalità e la cosiddetta “speranza di vita” salì nel 1901 a 43 anni contro i 35 del 1882.

Benedetto Croce, nella sua Storia d’Italia, riconobbe alla riforma crispina il carattere di “evento memorabile” della vita politica e morale italiana, dotando il paese di uno strumento attraverso il quale “la vigilanza igienica fece molti passi avanti con la sparizione o attenuazione delle epidemie e degli altri morbi e l’abbassamento della mortalità”.

A Siena, dopo la breve esperienza della Società dei Liberi Pensatori, nel marzo 1868 era nata un’altra società detta dei Razionalisti, ma anche questa fece vita grama, mentre la società senese per la cremazione riuscì nel 1894 e il 1896, a far costruire il Forno Crematorio. La spesa fu sostenuta per metà dal Comune, che si riservò la proprietà dell’impianto. L’at. 2 dello Statuto societario diceva: “il fine di questa società è di provvedere i mezzi necessari ad attuare, praticare e diffondere il sistema della cremazione, conforme alle rispettabili esigenze del sentimento religioso, della civiltà e della legge”. Ogni socio pagava una tassa di 50 lire anche in rate mensili non minori ad una lira, oppure 35 lire tutte insieme all’atto dell’iscrizione. Ogni socio aveva poi diritto alla cremazione gratuita.

Il forno crematorio fu eretto su disegno dell’architetto Augusto Corbi Zocchi all’esterno del perimetro del camposanto; poi, però ampliandosi il cimitero, è rimasto compreso nello stesso recinto. Naturalmente fu assai criticato dagli ambienti clericali, dai quali fu definito un “tamburlano”. Comunque cominciò a funzionare il 5 maggio 1896 con la cremazione del medico garibaldino Ruggero Barni, morto tre anni prima. Barni aveva ottenuto due medaglie d’argento al valor militare per la sua partecipazione alla battaglia del Volturno, dove fu ferito e fatto prigioniero dai borbonici e poi nello scontro di Bezzeca del 1866 quando soccorse Garibaldi, rimasto lievemente ferito.

Le ceneri del Barni furono riposte in un’urna funeraria di bronzo, circondata da un festone floreale e nel 1901 furono aggiunti due candelieri neogotici in ferro battuto, realizzati da Luciano Zalaffi.

La società poco dopo si sciolse, rinnovandosi nel 1906 sotto il nome di “Giordano Bruno”. Nel 1920 il forno passò in gestione al Comune.

Questa fu sciolta nel 1924 sotto il regime fascista e riprese la sua vita associativa nel 1948. Dopo il restauro del Tempio Crematorio, a cura dell’architetto Alessandro Bagnoli e l’ammodernamento del forno, nel 1996, adeguandosi alle nuove normative nacque la So.Crem, che aderisce alla Federazione italiana per la cremazione. Aumentando i soci – giunti a oltre 600 – e di conseguenza il numero delle cremazioni, si rese necessaria nel 2007 la costruzione della Nuova Ara, destinata alla conservazione delle urne nella galleria Santa Caterina, sempre all’interno del cimitero del Laterino.

Ormai dal 1963, dal Concilio Vaticano II, anche la Chiesa ha abolito il divieto di farsi cremare per i propri fedeli, pur se il codice di diritto canonico recita ancora al canone 1176 che “la Chiesa raccomanda che si conservi la consuetudine di seppellire i corpi dei defunti, ma non proibisce la cremazione, a meno che questa non sia stata scelta per ragioni contrarie alla dottrina cristiana”.

Sono ormai milioni nel mondo che scelgono la cremazione e anche in Italia la pratica è in aumento, tanto che a Milano e in altre città del Nord le cremazioni hanno superato le inumazioni. Persone come Giorgio Bocca, Antonio Tabucchi, Mike Buongiorno e Walter Bonatti sono state cremate. Una legge del 2001 ha anche eliminato l’obbligo di conservare le ceneri nei cimiteri: ora possono essere consegnate direttamente ai familiari e con alcune cautele, disperse.

Con la speranza…[ ] leggo alcuni versi scritti più di un secolo fa da Ulisse Bacci, che in certo modo riassumono lo spirito e gli obiettivi dei cremazionisti: “L’ossa dei padri, ammonticchiate, ignude / imputridian, confuse oscenamente / in fetenti caverne: i sacerdoti / ponean custodi dei lugubri avelli / lo spavento, il terror – fuggiva il sole / dagli orridi recessi e quando un raggio / della pallida luna i solitari / archi imbiancava dei funebri chiostri / negli fantasmi per le volte oscure / fuggian gemendo, d’ogni forma viva / sdegnosi; e in van dalle istoriate mura / l’arte sorrise che nei tetri alberghi / l’arte più bella non paria gentile! / Or più civil costume, in mezzo ai campi / aperti al bacio degli azzurri cieli / o su spiagge odorose a cui rapisce / con tiepida ala Zefiro i profumi / sotto piangenti salici e tra fiori / dolce alle umane spoglie offre riposo”.

Ma non voglio concludere con questi versi così ispirati, bensì con una battuta di Tom Antongini, che disse: “Due ragioni mi hanno sempre resa simpatica la cremazione: la prima che adoro il caldo; la seconda, la prospettiva di fregare i vermi”.

“Lasciamo la terra ai vivi” resta il nostro motto”

Giuliano Catoni
già ordinario di Archivistica
all’Università di Siena